Apparizioni nella materia
Mostre d'Arte
Apparizioni nella materia
Sono note di silenzio, trepidi esiti di una contemplazione della bellezza misteriosa della vita e della forma le opere grafiche e sclutoree di Mario da Corgeno esposte fino al 29 settembre a Palazzo Isimbardi di Milano.
Epifanie nel bronzo
Mario Da Corgeno conquista Milano con linee che sbocciano nello spazio
A un anno esatto dal prestigioso riconoscimento ricevuto a Caprese con il Premio Michelangelo che l’ha portato ad esporre nella casa natia del grande scultore, Mario da Corgeno ritorna agli onori della cronaca con un’altra mostra destinata a lasciare il segno. Questa volta è la vicina Milano ad accogliere le opere dell’artista varesino che espone una trentina di lavori fra sculture, disegno e dipinti realizzati negli ultimi tempi, a Palazzo Isimbardi, sede dell’Amministrazione Provinciale. L’inaugurazione della rassegna, realizzata in collaborazione con la Provincia di Varese, è avvenuta il 7 settembre 2001 alla presenza del presidente Ombretta Colli e dell’Assessore alla Cultura e Beni Culturali Paolo Iannace.
Apparizioni nella materia
Una musica arcana e una misura mirabile abitano l’opera di Mario da Corgeno, animano e tendono le sue spirituali sculture che sono fiori di materia nello spazio, petali d’una visione amorosa e trepida, sublimi convolvoli dinamici usciti dal grembo stesso della vita.
Proprio come la musica, l’arte di Mario da Corgeno nel misterioso processo alchemico di sprigionamento e liberazione della forma, nel suo interno dialogo di pieno e vuoto – non descrive né rappresenta la vita, bensì ne condensa e insieme decanta il segreto assoluto, l’intatta purezza d’origine, l’aura e la fiamma, la recondita vibrazione, il sedimento d’emozione, l’ inevitabile corona di gioia e di pianto.
E’, quella sognata da Mario da Corgeno, la scala di una bellezza difficile, pervasa da un quieto ma incessante delirio poetico, da una «divina follia» che stravolge e riscrive i codici del modellato e la logica della struttura, inseguendo l’anima mundi, il respiro dell’infinito, il soffio dell’intuizione che plasma marmo, bronzo e acciaio nella volontà di suggellarvi una verità ineffabile, eterna, non corruttibile perché appartenente al ragno della meraviglia, alla catarsi dell’arte che trascende dolore e limite, che riscatta volgarità e malinconia. «Non voglio morire senza aver amato»: queste parole di Mario da Corgeno – rintracciate nei suoi versi sparsi che paiono appunto potentemente scolpiti, e che sono lo specchio di un’anima e di un destino – mettono a nudo la personalità e il canto di un artista-contadino dolce e umile, ritirato e schivo, ma capace di far sempre risuonare d’una nota di struggente gentilezza la materia che esce dalle sue mani; capace – come pochi, oggi – di ristabilire una comunione di senso e di sensi attraverso e intorno una forma portata allo stadio tattile e visivo della perfezione, e affidata solo al silenzio della nostra contemplazione.
Le virginali epifanie di Mario da Corgeno si liberano e librano alate nel niveo candore del marmo, nell’aurorale luce del metallo, testimoniando la fragilità della bellezza, la sovrana ubiquità della poesia e dell’arte, che stanno qui ma soprattutto altrove, che sono un sommesso flatus vocis udibile solo all’orecchio del cuore. Nella loro ardua e mirabile bizzarria strutturale, nella loro serica levigatezza di superfici, le lunari entità cui Mario da Corgeno da corpo sono le risonanze armoniose e intenerite d’uno
sguardo mistico volitivamente ma serenamente portato al centro del dramma umano e della figura; uno sguardo toccato però da una grazia singolare, quella di vedere e «leggere» nelle apparenze soltanto la bellezza, l’occulta potenza d’Amore che incorona ogni creatura e la fa risplendere, malgrado l’ombra.
Nella sua medianica, strabiliante cifra stilistica fra artificio e istinto, che concilia la concisione del segno e la guizzante morbidezza dei volumi, che unisce e compenetra antropomorfismo, surrealismo, sintetismo, Mario da Corgeno ci consegna ancora il cielo dell’arte, la suprema delicatezza di un sentire benevolo e inattuale, che – nella muta appagante bellezza di forme preziose e atemporali – ci riparla della beatitudine e dell’estasi, del dono e dell’amore, della vita che palpita e finisce.