Premi e Riconoscimenti
Premi e riconoscimenti
Il Valore di Mario
Grazie per aver creduto in me
Ogni uomo si propone un ideale da raggiungere; lotta, si impegna, plasma la propria formazione scoprendo la fiducia di se stesso, la volontà, la sua fede.
A questo punto l’uomo aspetta che l’uomo stesso gli dia fiducia del suo operare.
Luce, Amore, Forma dell'idea
“Come lo scalpello penetra nella pietra per trarne la figura, tu mi hai scolpito la vita lo spazio dell’amore…“.
In questi versi da autentico, michelangiolesco lapicida di Mario da Corgeno sta tutto il mistero erotico di una forma scultorea vocativa ed evocativa che si espande mirabilmente come viluppo e sviluppo di tensioni plastiche. L’opera di Mario da Corgeno – va detto subito – porta in sé e con sé il retaggio prezioso di vent’anni di lavoro appartato e accorato, ostinatamente al riparo dalla ribalta delle cronache, di un lungo e tenero soliloquio con la bellezza luminosa, numinosa e dolorosa della vita.
Negli ultimi due decenni, infatti, l’artista lombardo si è fatto testimone di una dimensione interiore della bellezza; una dimensione alchemica, umbratile, consolatoria, proiezione figurale di un io spirituale capace di guardare all’essere secondo lo sguardo dell’amore; amore che è, come in Platone, l’attrazione esercitata sull’anima dal pulchrum.
Sul difetto di senso e nobiltà denunciato dalle apparenze sensibili, Mario da Corgeno eleva l’epos di una ricerca espressiva nella materia e di un ascolto dell’arcano della forma, in una pratica artistica che ripete l’utopia delle avanguardie storiche: fare della vita medesima un’opera d’arte, il campo assoluto dell’estetica.
Per la critica engagé contemporanea, “scientificamente” ancorata alla nozione di specializzazione del sapere e delle arti, l’opera omnia di questo singolare artista-contadino costituisce una sorta d’insormontabile anomalia, un “caso” da seppellire con la strategia complice del silenzio. Del resto, il lavoro di Mario da Corgeno, il suo toccare con sovrana humilitas e pari libertà i diversi versanti del verso, della pittura ad olio, del disegno, della scultura in pietra e bronzo, della costruzione di domestici oggetti lignei dal geniale congegno; tutto ciò attesta quello che oggi è forse l’ultimo vero esempio di una poetica, intendendo con il termine poetica la prevalenza normativa del vedere secondo un’originale misura del cuore che subordina e soggioga a sé l’empirìa della ratio e dell’ars.
Nel corpus di Mario da Corgeno tutto scaturisce da un’unica matrice originaria che si chiama vita; la vita come maternità generante valori fondativi quali la fede, la natura, la persona, l’amicizia, la compassione del dolore e della pena altrui. Una matrice che condivide persino l’etimo (matrix, mater) con l’altra categoria che illumina e disvela l’arte di Mario da Corgeno: la madre, appunto, stremata dolce ossessione sempre ritornante nelle magnetiche immagini femminili dello scultore, corpi sottoposti ad un’implacabile sublimazione fino a guadagnare lo studio di pure essenze spirituali.
L’artista ci orchestra davanti agli occhi un eden piuttosto un limbo, una selva incantata di ninfe danzanti, di silfidi aggraziate e leggere, di sirene fuggitive come il palpito di una visione o il battito d’ali di una qualche muliebre divinità silvestre che torni a farci visita nel tempo segreto del sogno; inquietanti simulacri somatici stirati in anatomie improbabili, in equilibri costosi, spesso trasfigurati in forme sintetiche che ascendono e si dilatano in una ritmica sinusoidale che vive anche del bianco lunare del marmo e delle atmosfere notturne suggerite dalle setose patine dei bronzi, in uno svariare di verdi opalescenti, d’azzurri minerali, di bruni densi com’ebano. Qui la luce, con l’incidenza sulle superfici, denota morfologie scultoree che si librano in felice e nativa armonia, con movimenti e snodi talora guizzanti, talora rallentati dal magistrale raffinato virtuosismo di un andamento curvilineo.
Per Mario da Corgeno lo scolpire per via di levare e modellare assurge a momento psicopompo di catarsi e di rivelazione magica e panica di un mondo dalla bellezza aurorale e virginale, sospeso fra l’estetico e l’estatico. Nella figurazione e negli stilemi di Mario da Corgeno riconosciamo il colto portato della grande scuola plastica italiana, dell’Art Nouveau, del simbolo europeo, del dinamismo plastico futurista di Boccioni, non che’ il toccante patetismo di un Wildt redivivo.
Davvero, la scultura di Mario da Corgeno è forma dell’idea platonica di bellezza; una forma tutta intima, come dimostra la contiguità espressiva del disegno, dove l’iniziale realismo grafico di una scuola annigoniana e lo sfumato d’ascendenza rinascimentale toscana cedono il campo ad un segno sempre più conciso, sommario, sintetico, ma sempre guidato da un occhio commosso.
Catafratte di cosmica malinconia, queste immagini di Mario da Corgeno emanano una sorta di sommesso ma percepibile profumo spirituale, pur slogate in uno strazio lancinante e muto che ci ricorda come la luce della vita s’accompagni sempre all’ombra della sua fine.
Se dal punto di vista linguistico non v’è dubbio che l’artista di Corgeno ci proponga un espressionismo sui generis, fortemente deformante, altrettanto indubbiamente è che tale vis deformante opera non per sadismo ma – al contrario – per amore, per troppa pietas, in un gesto formale e comunionale che è l’estensione della notte che ci avvolge tutti; quella notte dell’anima in cui coabitano e lottano le potenze d’eros e thanatos, della vita e della morte, ma che è il solo nostro medicamento, così da far dire a Mario da Corgeno, insieme a Michelangelo, che soltanto lei, la notte, è un “dolce tempo benché nero”.
Premio Michelangelo
Mario da Corgeno, vincitore della prima edizione
È con viva soddisfazione che il Comune di Caprese indice la prima edizione del Premio Internazionale per le arti “Michelangelo”. Ci auguriamo che il consenso delle Istituzioni, del pubblico e della critica confermi la volontà dell’amministrazione locale di realizzare qualcosa di alto e durevole, scelta d’obbligo in un territorio come il nostro a vocazione turistica internazionale e soprattutto unico luogo al mondo dotato di quel “valore aggiunto” rappresentato dal nome stesso di Michelangelo. Scopo del Premio è catalizzare l’attenzione internazionale su Caprese e divulgare la valenza della poesia, della scultura e del disegno – espressioni peculiarmente michelangiolesche – quali momenti fondativi delle arti, offrendo una qualificata selezione delle tendenze artistiche in atto e premiando i talenti emergenti, con particolare riferimento alle giovani generazioni. Per inaugurare questa manifestazione, che legherà sempre più Caprese al nome del suo più celebre cittadino e al grande retaggio della cultura italiana, si è scelto di assegnare il riconoscimento al poeta e scultore Mario da Corgeno, che nella sua arte ha saputo far rivivere – con linguaggio di un uomo d’oggi – la somma lezione spirituale del Buonarroti.
Daniele Del Morino
Sindaco di Caprese Michelangelo
La prima edizione del Premio internazionale “Michelangelo” rientra in un articolato cartellone di appuntamenti culturali che Caprese propone alla cittadinanza e al pubblico dei turisti per l’estate del 2000. Si tratta di concerti musicali e di spettacoli teatrali, con la partecipazione di artisti prestigiosi, che pongono l’accento sull’epoca rinascimentale e michelangiolesca in particolare. Queste manifestazioni fanno parte di un più vasto progetto e di una programmazione biennale che hanno come finalità la valorizzazione di quel grande tesoro rappresentato dalla storia, dalla cultura e dal contesto ambientale del nostro territorio.
Sonia Cherici
Assessore al Turismo di Caprese Michelangelo
Unico canto da «Foce» a «Fonte»
Se per puro dono del “cielo” chi ormai è disuso al suono delle rime si ritrovasse tra le mani e le orecchie stanche queste poesie di Mario da Corgeno, senza l’ancora di una benché minima scheda biografica che ne segnali i natali e la poetica, siate certi della riuscita perfetta dell’equivoco.
Sono toccati in sorte a due occhi che spiavano dalla fessura di un’anima i versi di forgia michelangiolesca di uno scultore affine a quello che dell’arte poetica sortì «molto diletta al gusto intero e sano l’opra della prim’arte»
L’aver scoperto tra le carte il nome di questi, non è stato certo simbolo di provvidenza, perché sfido chiunque se all’udir nominare Mario da Corgeno non resterebbe il cappio, per annodare l’arcano, se si stia disquisendo di uomo del Rinascimento.
Il critico acuto e smaliziato con gli occhi ancora intrisi della caliginosa luce dello studiolo, non avrebbe certo esitazioni nel segnare con professorale e rapido moto del pennino la grave dimenticanza per un “eccelso minore” smarrito tra le polveri tomiche. Minore del resto fu anche considerato con pedanteria critica crociana il Buonarroti. al quale fu affibbiata la croce del “poeta dilettantesco”.
Di quella divina mano Mario da Corgeno si dichiara da sempre debitore. Si scioglie il primo scorsoio nella penombra, perché intravedo che il suo trattasi di viaggio celere e miracoloso. Acchito dalla poesia che ha permesso il rapido passaggio attraverso i secoli, con la rapidità con cui bambino il capresano scagliava la pietruzza da un argine all’altro del Singerna.
Immagino da lontano che tra Corgeno e Caprese vi siano silve armoniose di poesia che fanno ombra sui tempi e le genti immote, ma lasciano che i raggi luminosi della “creazione” vivifichino anche per il suo allievo, che come il Maestro compie l’opera mentre «onora e ama e prega Dio, pè pascol, per l’armento e pel lavoro».
E come quello offre materia di gemma, e il marmo che prende forma dalla mano sua per sottrazione della materia, non trova altra ragione se non nel ricorso a un “veggente” lombardo come lui, il Testori, che per i michelangioleschi componimenti parlava genialmente di poesia «sessione di scultura di pietra».
Poesia che porta tra le braccia stanche quella stessa fatica, ma di cui «rompe le catene» del vivere nel vuoto, anelando disperatamente amore. Amore che è di un marmo introvabile nei paraggi, eppure va ricercato incessantemente in accorata preghiera di speranza e carità, con la consapevolezza di andare comunque incontro alla croce che a ciascuno spetta, ma che l’artista almeno ha talora il privilegio di scorgere prima e di avvertirne un dolore al cui confronto la dimenticanza degli umili critici disattenti è ramoscello che solletica il ventre.
Ciò che conta è che in quel cercare si arrivi alla riunione col suo Maestro, in unico afflato poetico e con «la gioia d’abbracciarti» per condividerne l’amore per l’arte tutta che non si arresta, davanti alla pietra, ma solidifica e si eterna nel verbo. Quell’eterno che è il tempio dell’arte, che si ferma solo per immagini, per labbra che disegnano un sorriso e «i miei occhi si socchiudono». Una voce che ora so non essere di Rinascimento. anche se da lì arriva, per farsi testimone esemplare del mio “strano tempo”.
Canta in cerimonioso silenzio, qualche stanza più in là, dove tra il riposo delle mani e il ristoro dello spirito è ancora capace di alzare gli occhi a rimirar le «stelle» che diventano «grappoli di baci». Stupore, è ciò che suscitano le «nuove rime» di Corgeno che sposano l’anastrofe, fuoriuscite da quest’anima che illumina la notte in cui brancoliamo tutti, per aver smarrito quella poesia che congiunge l’uomo a Dio. Per noi la notte è solo tenebra, ma per Mario Da Corgeno e il suo Maestro resta ancora melanconicamente e musicalmente perfetta nell’«ombra del morir».
Il lettore arreso che non sa più gustare del bene prezioso della pagina si troverà a non saper riconoscere tra la foce michelangiolesca e la fonte di Corgeno. Mi libera il suo «non vedo altro che ombre, batte il cuore». Continua a battere più forte. perché il cuore della poesia che in tanti credono essersi arrestato, qui si è fatto fonte attraverso la foce, e sgorga acqua copiosa.
Il lettore riceverà da quella fonte almeno una goccia, quella stessa discesa dagli occhi che cercano al buio con il poeta: «Ti cerco aldilà di una lacrima dove sei». Quella stessa goccia caduta dalla foce michelangiolesca per il quale siamo debitori quanto Mario da Corgeno, nel sentirci uomini e cristiani del nostro tempo, dal momento in cui «mi hai lasciato nel cuore l’eterno del tuo amore»
Pietro Annigoni
Lettera scritta da Pietro Annigoni a Mario da Corgeno
“Quando penso a Mario da Corgeno penso ad una irruzione, a un vortice, ad un che di imprecisato da cui ci si attende una rivelazione esplosiva; e penso al Mario “bruum” come noi qui dello studio lo chiamiamo, dopo che ce lo siamo visto arrivare tante volte, all’improvviso, pieno d’entusiasmo pieno di tante cose da dire che si accalcavano, si accavallavano e che il più delle volte, si condensavano appunto in un riassuntivo e fragoroso “bruum”.
Al tempo stesso penso a quel che il suo operare è stato ed è tuttora, un operare da assiduo lavoratore, tanto irruente quanto frenato, che molte cose ha fatto e molte ne ha distrutte con insoddisfazione. Perché Mario Favini (Mario da Corgeno, Mario bruum) ha qualcosa da dire, anzi da urlare: forse un intuito sul perché dell’esistere, che tuttavia gli sfugge e che lui ‘accanisce a ricercare con ansia. Nella sua opera vedo bene questo sforzo indomabile di ricerca, e particolarmente rivelatrici mi appaiono quelle figure che si sprigionano dal marmo per ripenetrarvi in un anelito di ricerca disperata.”
Pietro Annigoni
Pittore
L'idea della forma e la forma dell'idea
Mario da Corgeno intende ancora la scultura come costruzione dello spazio e della materia. Diventa, così, necessario che la forma misuri e qualifichi lo spazio. Ma, oggi, per Mario da Corgeno la tridimensionalità non deve più, inevitabilmente, descrivere l’uomo e la natura, trasferire modelli realistici, ma significarsi come tale attraverso puri rapporti di convenienza volumetrica.
Ora le situazioni plastiche privilegiate da Mario da Corgeno vanno, gradualmente, dalla loro necessità alla loro libertà, cercando una determinazione fenomenologica delle immagini per mezzo di liberi equilibri delle masse. Per lo scultore la forma è, oggi, compresa come una funzione di più variabili e non già come somma di più elementi. Così Mario da Corgeno è impegnato nella definizione delle linee essenziali risultanti dal confronto pieni-vuoti di volumi inoggettivi dove la luce diventa protagonista di un nuovo evento plastico antianalogico e non evocativo.
Con tali propositi Mario da Corgeno vuole offrire alla luce volumi sempre più nudi che si implichino mutualmente. In questi suoi recenti tentativi verso l’unico, Mario da Corgeno si sta, progressivamente, liberando dal condizionamento simbolico, dal rinvio arcaistico, dall’enfatismo barocco.
Il trattamento plastico rispetta, ancora, la potenza delle masse, la loro densità di blocco o di parete, ma il modellato resta alla superficie come una modulazione leggera e incorporea. Si tratta di variazioni e di ricerche sulle misure, dove il volume traduce l’interpretazione della luce. Sono opere che ci propongono la conoscenza aurorale, cioè immediata, oggettiva, sensibile del mondo e di una natura elevata a sogno, a desiderio di assoluto.
Il processo filologico-critico di interpretazione di questa scultura perviene a un discorso che illumina concettualmente nei suoi meriti, sullo sfondo dei suoi limiti. Ogni materia possiede una sua propria vocazione formale, così come ogni forma può esprimersi solamente attraverso una specifica materia.
Mario da Corgeno trova nel marmo, e nel bronzo, i media ricorrenti di un comunicare del tutto interiore, strutturalmente sintetico e selettivo.
I volumi ideati da questo scultore di aspirazione monumentale propongono soluzioni immateriali, linee di contorno esemplificate, tensioni di vuoti che suggeriscono spazi inediti invece di percorsi obbligati dall’analogia anatomica o naturalistica.
L’evento plastico non risiede nel racconto tridimensionale ma nell’inedito al confronto spaziovolumetrico, percettivamente unitario e irriferente.
Oggi Mario Da Corgeno vuole dare significato all’inconsueto, individuando forme che si sostanziano in linee organicamente ritmate.
Cosi volume e spazio infigurati creano la trama del divenire universale cui invita l’opera dello scultore essenzialista. In questi lavori recenti l’autore sottopone la propria esuberanza ad attenti controlli, accertando che l’essenza dei corpi è l’estensione e l’estensione è lo spazio.
Avendo ormai verificato che la forma è la possibilità della struttura, Mario Da Corgeno costruisce itinerari plastici come manifestazione sensibile dell’idea spaziovolumetrica, come universo visuale alla ricerca delle proprie origini di condizionamento della materia.
I frutti della sua inquietudine si traducono in oggetti plastici epurati da ogni rinvio all’essenza delle cose e degli eventi quotidiani per risolversi
nel silenzioso spettacolo del confronto spaziale di volumi ritmicamente costruiti e severamente equilibrati.
L’attuale vocabolario formale dello scultore lombardo, che vive e opera a Corgeno di Varese nel più completo isolamento sociale, evidenzia che il pensiero non ha avuto ragione del sentimento ma lo ha subito. Qui il concetto trova la sua forma in una libertà che è essenziale alla stessa oggettività dello spirito. Fra i più recenti lavori di committenza pubblica, Mario Da Corgeno ha realizzato una struttura monumentale per la piazza che introduce il nuovo spazio culturale del comune di Vergiate nella provincia di Varese. Pur attraverso larghe sintesi formali, il proposito dello scultore rinvia all’ analogia figurale, al pathos, al conflitto spirituale dell’uomo che si interroga sulla vita, che si oppone alla pianificazione del proprio destino, che si sublima per tangibilmente significarsi.
Scritto nel bronzo questo messaggio di inedita elevazione della materia all’ideale espressivo, di soluzione dell’antinomia realtà-finzione, perverrà all’uomo della strada durante il quotidiano alternarsi di un itinerario urbano obbligato e prima di oggi del tutto anonimo.
Il senso cosmologico della leggenda è particolarmente netto in quest’opera che vuole identificarsi con una condizione umana riscattata dall’elevazione spaziotemporale illimitata per meglio correlarsi al dato urbanistico. Qui il caos si concretizza e il dramma della violenza e dell’autodistruzione dell’uomo si placa in un organismo plastico concepito come pura idea di canto. Resterà una essenza di forma umana al momento della genesi, un simbolo della metamorfosi e del divenire dei corpi, a interpretare lo spazio di una piazza lombarda che, così, invita alla riflessione e al dialogo del pubblico con l’interna spiritualità di un monumento alla dialettica della vita.
L’opera potrebbe associare gli slanci e le tensioni figurali di Ossip Zadkine, quando il grande scultore russo proiettava nello spazzo quelle invocazioni, al divenire del creato che, pure, hanno orientato Mario Da Corgeno nella propensione tangenziale del bronzo per la piazza dello spazio culturale di Vergiate. Mario Da Corgeno si sta, ora, dirigendo verso la sintesi totale del confronto spaziovolumetrico dove una più meditata libertà strutturale lo trasferirà, irreversibilmente, dal raconto tridimensionale biomorfico alla forma autosignificante.
Definitivamente spogliate dei connotati umani e dei sottintesi impliciti della anedottica sociale, le future opere di Mario Da Corgeno concluderanno quel processo ciclico di rinnovamento cui ancora aspirano in quanto metafore per motivazioni psicologiche spinte al massimo grado di intensità plastica.
In un’epoca come la nostra in cui il processo sperimentale si manifesta in ogni forma di vita, la ricerca diventa l’unica, valida, espressione dello spirito. Con la certezza di questa necessità lo scultore di Corgeno potrà attribuire al cosmopolitismo plastico nuove motivazioni comunicazionali. Oltre la scultura il percezionale inesplorato.
Milano, ottobre 1987
Cosmo d'amore
Fin dagli esordi, l’arte di Mario da Corgeno appare come la materializzazione di misteriose potenze spirituali. La sua è un’opera avvolgente e totale, un unico mirabile, prezioso microcosmo in cui è lecito lasciarsi andare e trasportare, e che comprende la scultura, il disegno, l’habitat dell’artista, dove la casa, il giardino in riva al lago, l’atelier nel verde e nella natura descrivono un mondo magico in grado di accendere suggestioni, di suggerire pensieri alati, di librare il sogno e persino il deliquio: un luogo, davvero, in cui parlano le muse, con voci sublimi.
Le sue figurazioni sono i simulacri di un idea universale che le mani dell’autore sanno plasmare come in un incessante stato di estasi e di ebrezza. Mario evoca e libera a forma scavando sembianze struggenti nella nivea materia del marmo, forgiando il metallo-colore del bronzo, campendo fisionomie con la purezza di poche linee a matita sul biancore del foglio, linee capaci però di catturare non solo la figura ma anche l’essenza intima dell’anima, che ci viene restituita con il suo fascino. Il disegno di Mario da Corgeno svolge rapidamente la matassa dell’interiorità in un unico dinamico filo che esprime energia pura, immediata, spontanea, trovando il suo movente in una cosmica risonanza, in un’empatia fra artista e soggetto.
Le mani e lo scalpello di Mario plasmano, modellano, levigano con amore incondizionato, sfiorano le superfici e i volumi liberando la luce, la fiamma del bello imprigionata nella carne del vivere. Tutta l’opera di Mario è opera d’amore: è la speranza di ritrovare nell’arte “il bene evaso da questo mondo“. è la testimonianza di un uomo che confessa: “Non voglio morire senza aver amato” è la volontà di raccontare l’emozione della vita quando “un vulcano erompe nel petto“.
Dalla materia informe lo scultore di Corgeno trae bellezze leggiadre che hanno il torpore dell’abbandono e la leggerezza della danza: figure muliebri stilizzate, elegantemente allungate, rastremate, spesso dagli occhi chiusi, esprimenti raccoglimento e interiorità. Talora, il sogno e la raffinatezza cedono il passo alla tragedia e al grottesco, dando luogo a volti stralunati, stirati in una
smorfia estrema di solitudine e di spavento. Più spesso ancora. l’anatomia umana viene sola suggerita, evolvendo in purissime e sintetiche architetture, in armoniosi costrutti, meravigliose vele e spirali dal difficile equilibrio nello spazio, sfidanti le leggi della statica.
Spirito neoplatonico, Mario da Corgeno insegue un’idea di bellezza che annulli le distanze fra l’iperuranio, dove ha sede la perfezione, e il nostro mondo terreno sottoposto al dolore, alla caducità, al limite. Il suo intelletto terso ci offre un’arte che è si sensualità, ma anche purificazione e catarsi. Un vero e proprio eros michelangiolesco ci viene testimoniato da questo singolarissimo e gentile artista-contadino nato nel 1945 da una famiglia rurale di Corgeno, sulle luminose sponde del lago di Comabbio, paese dove da sempre vive e di cui ha voluto assumere persino il nome, a conferma di radici che sono radici dell’io. Introverso e refrattario agli onori delle cronache, Mario da Corgeno scopri quattordicenne il proprio destino d’arte grazie al maestro Pietro Annigoni, – restandone folgorato – incoraggiò a scolpire quel ragazzo umile, ardente e “matto“.
Come la musica, l’arte di Mario da Corgeno – nel processo esoterico di sprigionamento liberazione della forma, nel suo interno dialogo di pieni e vuoti – non descrive né rappresenta la vita, bensì ne canta e decanta il segreto assoluto, il recondito palpito, l’inevitabile corona di luce e ombra; e lo fa nella prodigiosa concisione del segno puramente linearistico, nella guizzante morbidezza dei volumi, in un’elegante cifra stilistica che unisce surrealismo e sintetismo.
Per decenni Mario ha lavorato lontano dalla ribalta, ma perseguendo – con l’oltranza d’un cuore semplice – una poetica francescana che trasformava in arte ogni aspetto del vivere. Poeta, pittore, scultore, designer, architetto «autodidatta», Mario da Corgeno col fratello Giancarlo ha trasformato la propria casa in un cenacolo aperto ad amici, collezionisti, compagni d’avventura, recuperando a prato e a bosco cinquantamila metri quadrati di terreno che erano abbandonati all’incuria e al degrado. Quella di Mario da Corgeno è stata insomma l’utopia peculiare delle avanguardie: trasformare tutta la vita in un’opera d’arte. Ma tutto ciò egli ha saputo farlo senza ideologie di sorta, anzi salvando un’anima profondamente umanistica, una pietas cristiana di rara caratura.
La sua dimora (che è insieme atelier, fattoria chiostro, officina di lavoro) ospiterà permanentemente le opere dell’artista: stupende sculture, disegni, arredi che egli ha ritrovato o creato seguendo un formidabile istinto e gusto, una vena plastica degna di un Wildt redivivo sotto cieli del Varesotto. Una vena sottilmente malinconica. fra simbolismo ed espressionismo. che ci racconta del tempo, della bellezza, della nostra anima.
La coscienza dell'uomo
di Franca Aletti
Oggi siamo riuniti qui per inaugurare un segno che ci ricordi il passato e ci ponga di fronte al presente, questo presente che ci prende per mano ci condiziona ad una corsa sfrenata senza capire dove siamo diretti e quale strada possiamo imboccare con la nostra volontà.
Noi tutti vogliamo accaparrarci un futuro troppo garantito, senza rischiare la prova della sofferenza, della speranza, della comprensione, della fede ed egoisticamente viviamo chiusi, protetti da una lama tagliente che ci separa l’uno dall’altro. Questa lama fende lo spazio e ci lascia indifferenti ci impedisce con superbia di prenderci per mano come amici, anzi, come fratelli, visto che siamo figli dell’Universo, condotti a vivere sulla Terra un passaggio così veloce da non poterci permettere di trascurare l’amore che possiamo dare per rendere questa esistenza migliore.
Quanti dubbi abbiamo oggi, quante paure, debolezze e angosce diventano scorie negative, capaci solo di abbruttire la serenità e il piacere di vivere. Siamo preoccupati di smaltire scorie radioattive sparse su tutto il pianeta, ma ignoriamo quelle che noi abbiamo dentro e che spesso lacerano la coscienza rendendola insensibile e dura come un muro di cemento eretto minacciosamente a separare la Luce dall’ombra che è in noi. E l’ombra diventa sempre più buia. Solo abbattendo quel muro possiamo condividere un passato e ascoltare le grida di dolore innocente che giungono ogni giorno a scuotere le porte del cuore. Ma le porte rimangono chiuse.
Dopo tanti errori e guerre di ieri, avevamo conquistato apparentemente la capacità di comprendere che con la morte cessa la vita, nel senso di movimento verso una costruttività ed una costruzione; cessa l’energia dell’azione materica; cessa la reazione sulla Terra e quindi il significato la prova dell’uomo. Ma anche oggi la vela possente della coscienza è crivellata di colpi ed ai suoi piedi c’è ancora una volta una vittima, segno che la conquista non era avvenuta.
Ecco la coscienza umana che riesce ad essere indifferente agli spari e da quegli stessi spari, quindi, è trapassata. Ma è proprio da quest’uomo ferito a morte, tradito da parole forti e fantocci deboli, che nasce un grido che va al di là della giustizia personale del tempo. Dalla lacerazione della carne, ormai inutile, esce imperiosa una mano che chiede. Quella mano si è trasformata alchemicamente, penetrando nell’anima che da sempre sa e conosce, ed è diventata extraumana. Non c’entra con dittatori e politici, con vincitori e vinti, con potere e leggi. Essa stessa è vittoria perché è speranza e la speranza è salvezza. E’ come se lo spirito avesse forzato la sua invisibilità per assumere una sembianza che mostrasse concretamente il modo di essere uomini, di essere consapevoli, cioè, di possedere una coscienza e di doverla usare al meglio.
Fin dall’antichità, la croce rappresenta l’intersecazione tra spazio e tempo e nel punto di contatto è collocato l’uomo perché metta in atto la sua evoluzione, perché progredisca e non continui ad essere ciò che è stato. Il Cristo è morto in croce come simbolo d’amore incarnato e l’abbiamo ucciso per non doverlo usare, quell’amore, per non piegarci alla legge Universale del dono reciproco. E ancora oggi crocifiggiamo per questo.
E’ più sbrigativo distruggere che cambiare, abbattere che scegliere un altro modo. Dal nostro limite, una porta aperta sull’infinito (lo stargate) comporta passi nuovi da fare in una dimensione conosciuta e noi temiamo l’ignoto prima ancora di sperimentarlo.
Quest’uomo morente siamo noi che, alle porte del Terzo Millennio; non riusciamo più a vivere ad un ritmo cosi sconnesso, noi che chiediamo, che esigiamo la nostra vera origine spirituale ed una coscienza in espansione forte, consapevole, che non abbia limiti di potere, ma sia conoscenza e capacità di elargire l’amore che quella croce ci ricorda.
Perdiamo il vizio di chiedere miracoli a Dio dopo avere sbagliato. I miracoli avvengono là dove ci sono le premesse perché avvengano. Ma il primo miracolo lo dobbiamo fare noi cambiando atteggiamento e prospettive di vita, progetti e cammino.
Abbiamo dalla nascita tutto ciò che ci serve, abbiamo strumenti e mattoni per costruire un mondo magnifico.
Non distruzione, non dolore, dunque, ma nell’incrocio tra
spazio e tempo, un uomo che adempia con gioia al suo compito di essere realizzatore, di essere respiro, di essere vita e non morte.
Mario da Corgeno, questo artista così speciale nel cogliere esattamente l’essenza dei problemi e la profondità dell’anima, ha rappresentato in modo sconvolgente il grido disperato di chi è stato tradito da una coscienza apparente. Tutto in quel corpo che cade, che si contorce, parla della volontà di sublimare la materia con la forza dello spirito e Mario da Corgeno, per primo, l’ha fatto traendo dalla creta la forma dell’uomo che si ribella alla limitazione di essere solo creta e scopre dentro di sé la soluzione.
Ogni vero Artista ha una soluzione importante da comunicarci perché è un ponte con l’infinito e vede là dove noi siamo ciechi. Spesso confondiamo la genialità con la follia, senza capire che la follia è confusione, mentre il genio è ordine supremo perché osserva da una dimensione più alta.
Guardiamo, allora, quella mano e doniamole ciò che chiede: una rigenerazione interiore. Cerchiamo la vela integra della nostra coscienza e lasciamoci condurre liberi e lievi ad un traguardo superiore. Decidiamo finalmente di capire, di cambiare il presente in vista del futuro, di diventare quegli uomini creati per essere grandi come Mario da Corgeno ha saputo essere, usando negli anni, infaticabilmente e senza superbia, ogni suo talento e mezzo, scegliendo con coraggio la strada della verità che va oltre la facciata, la strada dell’ascolto della sua coscienza che gli ha permesso di donarci, da Maestro, una visione esatta di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere se solo lo volessimo.